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Pillole di psicologia per capire come l’emergenza COVID-19 influisce sui nostri comportamenti, a volte in maniera del tutto irrazionale.

Qualcuno si chiederà se in questa situazione drammatica per la nostra salute abbia senso parlare di psicologia, una disciplina che non gode fama di grande solidità scientifica. Rispondo che ha senso, a condizione che parliamo della psicologia allineata al metodo delle scienze naturali, quel metodo che consente di fare affermazioni comprovate dai fatti e non basate sulle opinioni. Ça va sans dire, non tutta la psicologia appartiene a questo gruppo, ma quella che vi appartiene può essere molto utile per capire quali sono i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre azioni, in una parola il nostro comportamento, in questo drammatico frangente nell’emergenza coronavirus. Comprendere questi processi aiuta a prevedere i nostri comportamenti e a porre in essere procedure per modificarli, in funzione di un obiettivo condiviso: la salute dei singoli e della collettività.

La paura

Fra tutte le emozioni la paura è quella che ha il maggior valore salvifico. Avere paura davanti a un pericolo salva la vita. L’homo sapiens è arrivato fino a oggi perché le sue paure gli hanno consentito di sopravvivere. I temerari, gli intrepidi, gli audaci, così celebrati nella prosopopea eroica, e i curiosi, che pure sono importanti per lo sviluppo della cultura e della scienza, hanno meno probabilità di sopravvivere: Giordano Bruno e Marie Curie, in tempi e campi diversi, ne sono la prova.

Il COVID-19 fa paura, com’è giusto che sia, visto che rappresenta una minaccia di dolore e di morte per buona parte dell’umanità. Ci aspetteremmo quindi comportamenti di difesa e di sopravvivenza in linea con la paura di una minaccia così forte. Eppure, abbiamo assistito a scene recenti incoerenti con il concetto di paura: la folla che passeggia spensierata sui Navigli a Milano, i giovani della movida e dello spritz a Napoli, le persone che si affollano sui treni in direzione Sud, mentre tutti scienziati e media battono e ribattono, e implorano, di stare a casa, che è il posto più sicuro. Perché?

La paura funziona come deterrente salvifico se la minaccia viene percepita come tale. L’uomo della savana, se vede un leone che si aggira nei dintorni, sale su un albero, ben prima di chiedersi se è affamato o no. Lo stesso se vede un serpente strisciare verso di lui, anche se il suo compagno di caccia gli dice di stare tranquillo, che non è velenoso.

Non c’è bisogno di pensare, di valutare: la reazione è automatica, perché lo stimolo è fisico, è conosciuto, è percepito come pericoloso. Il coronavirus non possiede queste caratteristiche: non è fisico (ovviamente lo è, ma non lo si vede, quindi è come se non lo fosse), non è ben conosciuto, non è percepito come pericoloso. È definito un rischio emergente, quindi la sua percezione non è paragonabile a quella di altre situazioni note.

Ciò per quanto riguarda lo stimolo che produce la paura e dovrebbe indurre comportamenti di salvaguardia coerenti. Questo è solo uno dei poli dell’interazione. L’altro polo è rappresentato

da chi percepisce lo stimolo, l’homo sapiens 2020. A lungo si è pensato che questi fosse un essere razionale, capace di calcolare al meglio le probabilità di successo di una scelta rispetto a un’altra. La psicologia ha da tempo dimostrato, con dati molto robusti, che non è così. Siamo essere razionali sì, ma con limitazioni. Ci affidiamo a valutazioni approssimative, che si sono rivelate vantaggiose ed economiche in passato, a scorciatoie del pensiero, chiamate euristiche, a cui tutti ricorriamo in modo automatico e inconsapevole, per semplificare la complessità del mondo esterno e non rimanere paralizzati di fronte all’incertezza: non sapendo se il leone è affamato, nel dubbio scappo sull’albero.

Gli stimoli

Gli stimoli non hanno lo stesso valore per tutti, naturalmente: la reazione dipende dal grado di familiarità, dalla storia passata, dal livello culturale di ciascuno (e sappiamo che la scolarità italiana e il 50% di quella media europea). Vi sono però costanti di errore che alterano in modo sistematico la salienza dello stimolo e di conseguenza la valutazione del rischio. Il New York Times di qualche giorno fa spiegava come «alcune politiche di quarantena o di monitoraggio possono avere un grande senso quando la minaccia è reale e le politiche si basano su dati precisi. Ma i fatti sul campo, al contrario della paura nell’aria, non giustificano tali azioni. Per la maggior parte di noi, l’influenza stagionale, che ha ucciso ben 25 mila persone negli Stati Uniti in pochi mesi, presenta una minaccia maggiore del coronavirus».

Il contesto

Questo ci porta a parlare del terzo elemento dell’interazione, il contesto in cui essa ha luogo, un contesto che può essere (ed è stato) molto tossico. Un rischio emergente porta con sé, inevitabilmente alcune condizioni di incertezza che ci spingono a cercare informazioni. Se queste mancano, o sono sottaciute, il rischio è di dare spazio allo sviluppo di pericolose teorie complottiste, ne abbiamo avuti esempi da alcuni personaggi del sottobosco politico già noti per precedenti deliranti esternazioni antiscientifiche.

Però c’è anche il rischio opposto, la ridondanza di informazioni e la loro dissonanza, una sorta di epidemia di informazioni non sempre attendibili, spesso contraddittorie, che hanno creato disorientamento. Abbiamo sentito esponenti politici che nei giorni pari affermavano categoricamente la necessità di bisogna bloccare tutte le frontiere e mettere tutti in quarantena, e nei giorni dispari affermavano altrettanto categoricamente la necessità di ripartire, riaprire i locali e così via.

Ancora peggio, abbiamo sentito esponenti del mondo scientifico sanitario mettere continuamente in guardia sulla estrema pericolosità dell’epidemia e altri, fortunatamente minoritari, assumere un atteggiamento minimizzante, “è poco più di una semplice influenza” (fino a ciarlatani, ospitati in trasmissioni televisive, che possiedono la ricetta miracolosa contro il virus: il succo di limone). Anche con le attenuanti della buona intenzione di non ingenerare risposte di panico, si tratta di una confusione pericolosa: la realtà, il giudice ultimo della fondatezza teorie, ci dice che è tutt’altro che una semplice influenza, e che i comportamenti

irresponsabili descritti sopra sono molto pericolosi e quindi da modificare e gestire, in un modo o nell’altro.

Scriveva il Wall Street Journal, pochi giorni fa: «Noi dei media dovremmo passare più tempo a parlare con gli esperti che sanno qualcosa e meno tempo a citare i politici che non sanno quasi nulla del virus, ma che vedono un potenziale guadagno nello sfruttamento di una crisi sanitaria». Il New York Times è sulla stessa linea: «La soluzione non è cercare di pensare più attentamente alla situazione. La maggior parte delle persone non possiede le conoscenze mediche per sapere come e quando affrontare al meglio le epidemie virali e, di conseguenza, le loro emozioni subiscono un ondeggiamento indebito. La soluzione è piuttosto quella di affidarsi a una competenza informata sui dati. Ma nel mondo di oggi, temo che la fiducia nelle competenze sia mancante, rendendoci vittime alla mercé della paura».

Viviamo in un’epoca che mostra una forte intolleranza per gli esperti: espressioni come “i professoroni”, “uno vale uno”, la confusione di opinioni e fatti scientifici con la pretesa “democratica” di conferire la stessa legittimità a entrambi, e di mettere a confronto in Tv una soubrette e un professore universitario su un fatto medico (l’efficacia dei vaccini), ne sono la dimostrazione.

Sono fattori tossici, che hanno intossicato la comunicazione e il rapporto con i cittadini, creando un contesto di irragionevolezza che ora ci indebolisce nella lotta contro l’epidemia. Se lo slogan “uno vale uno” vale niente nella competenza scientifica, vale invece in questo frangente nella quotidianità: il comportamento di ciascuno fa la differenza, nel bene e nel male, nel diffondere sciaguratamente il virus o nel bloccarlo.Ciascuno di noi ha una responsabilità nel successo o nel fallimento delle strategie messe in atto per contrastare l’epidemia. Questo tema dovrebbe essere messo molto in evidenza da media e politici.

Paolo Moderato